Circa un anno fa mi fu affidato un compito molto difficile, dal quale speravo di sottrarmi, perché avevo la forte convinzione che sarebbe stato impossibile da realizzare. Credevo che quella sarebbe stata la mia rovina lavorativa: un progetto tanto vasto e complesso da protrarsi nel tempo per un periodo indefinito e imprevedibile, nel quale mi sarei perso per i mesi a venire senza riuscire a portare a casa alcun risultato.

È passato un anno, e quel progetto è fallito miseramente, ma non nel modo in cui avevo previsto io.

L’obiettivo era chiaro. Anzi, poteva essere riassunto in una sola frase. Ed è proprio così in effetti che mi è stato presentato: “Bisogna correggere quei numeri“, mi hanno detto. Semplice, all’apparenza. Lo sapevano tutti che quei numeri erano sbagliati. Pensavo che ormai ci avessimo semplicemente fatto il callo. Ci avevano già provato due volte, con progetti durati mesi, a correggere quei numeri. Come accade a volte nelle grandi aziende, hanno spacciato due fallimenti per mezzi successi. Quei numeri erano sempre sbagliati, ma calcolarli adesso richiedeva meno tempo. O magari quei numeri erano diventati giusti, ma nel frattempo, altri numeri erano diventati sbagliati, anche se nessuno se ne sarebbe accorto ancora per un po’.

Due volte ci avevano provato e due volte avevano fallito, al punto che si era reso necessario un terzo tentativo. “Sei la persona perfetta per questo problema”, mi è stato detto. Non mi sentivo così d’accordo con questa interpretazione dei fatti, in realtà. Non volevo prendermi carico di questo macigno inamovibile, perché a me non sarebbe bastato accontentarmi di un mezzo fallimento.

Non mi piace combattere con i numeri. Lo so, sembra un controsenso per un programmatore, ma mi trovo molto meglio con le quantità discrete. Mi piace molto di più lavorare con oggetti complessi, trovare un’organizzazione, incasellarli in qualche struttura che renda semplice maneggiarli. Ma i numeri, quelli proprio non mi vanno giù.

Non mi andava di mettere il naso in quella pila di letame nauseante, soprattutto mentre l’azienda era concentrata su un altro progetto, nuovo e scintillante, sul quale avrebbe scommesso il suo futuro. Avrei di gran lunga preferito far parte della squadra che si occupava del nuovo progetto, definire il futuro dell’azienda, lavorare con tecnologie moderne e su un problema interessante. Non volevo lavorare da solo a questa scomoda eredità del passato, mentre il resto della squadra si concentrava sul futuro dell’azienda. Ho provato e riprovato, ma non c’è stato modo di sfuggire al mio destino. Qualcuno doveva aggiustare quei numeri, e quel qualcuno dovevo essere io.

Se non avessi avuto completa fiducia nei miei capi, avrei pensato che si trattasse di una mossa per licenziarmi. Nessuno poteva correggere quei numeri. Impossibile. I colleghi mi davano pacche sulle spalle: nessuno di loro avrebbe voluto essere al mio posto. Era tutto così ingarbugliato, tutto così costruito male, tutto così attaccato insieme in fretta e furia e senza pensare, che era ormai diventato una matassa inestricabile… Quella matassa però, ormai, toccava a me.

Ho iniziato a pensare a cosa andasse fatto e a come. Sapevo già a grandi linee perché quei numeri erano sbagliati, e come mai quegli sbagli non potevano essere corretti. Ho pensato a quali presupposti avessero seguito gli altri che prima di me si erano confrontati con il problema, ed ho cercato di capire quali di questi fossero veri. Per quanto abbia girato intorno al problema, lanciandolo da una mano all’altra, osservandolo da tutte le angolazioni possibili, riuscivo a vedere solo una soluzione. Quella soluzione avrebbe significato mesi di lavoro e di sofferenze, sarebbe stata un’impresa titanica e avrei dovuto compierla da solo, o fallire nel tentativo.

Nonostante tutto, il mio piano ricevette l’approvazione. In qualche modo i piani alti erano stati convinti della necessità di tutto quel lavoro per correggere quei numeri. Non credevo che sarebbe mai successo, anzi, ad essere sincero, contavo proprio sul fatto che non avrebbero approvato tutti quei mesi di lavoro solo per correggere quei numeri… Ma improvvisamente tutti mi dicevano quanto quello che stessi facendo fosse importante per l’azienda e quanti clienti sarebbero stati felici del mio lavoro, anche se penso lo facessero per scongiurare il mio suicidio.

Sono riuscito anche a farmi affiancare da un altro povero disgraziato come me. Anzi, forse pure più disgraziato di me, perché questo è stato il suo primo progetto una volta assunto in azienda e lui neanche sapeva a cosa stesse andando incontro.

Purtroppo quasi nessuna delle persone con cui avevo a che fare capiva la complessità di quello che stavo facendo. In realtà sono convinto che molte persone non sapessero di preciso neanche cosa stessi facendo. Nel tentativo di mostrare a dei ciechi la vastità della montagna che mi avevano chiesto di scalare, ho cercato un nome per questo progetto che riflettesse la mole di lavoro e la difficoltà dello stesso. Così battezzai questa impresa come Progetto Briareo.

ECATONCHIRI: dalle cento mani, nome dei tre giganti Cotto, Briareo e Gige, figli del Cielo e della Terra, ciascuno dei quali avea cinquanta teste e cento braccia. Il Cielo non potè sopportarne la vista ed a misura che essi nacquero, ei li nascose nelle oscure caverne della terra e li caricò di catene. In seguito Giove per consiglio della Terra li pose in libertà, quindi combatterono per lui con tale ardore che dai Titani non potè essere sostenuto; e coprendoli ad ogni momento con pietre che lanciavano colle lor mani li respinsero sino nel fondo del Tartaro ed ivi li rinchiusero in prigioni di bronzo. La Notte vi sparse in giro tre volte le proprie ombre e Giove confidò la custodia agli Ecatonchiri.

Dizionario d’ogni mitologia e antichità, volume 2 – Girolamo Pozzoli, Milano 1820

Mi sarebbero servite cento mani e cinquanta teste per aggiustare tutto quello che c’era di rotto, per poter correggere quei numeri. Mi sarebbe servita la forza di un gigante. Sarei dovuto essere io Briareo.

Il lungo inverno del progetto Briareo è iniziato con i primi freddi, ed è proseguito per i successivi millecinquecento anni. Sentivo una responsabilità incredibile gravare sulle mie spalle. Per la prima volta mi avevano solo detto che c’era un problema da risolvere, e non come andasse risolto. Finalmente, dopo anni di lotte, avevo in mano il mio futuro… Ed è successo esattamente con il progetto più complesso sul quale avessi mai lavorato. Il successo o il fallimento dell’impresa dipendevano esclusivamente da me.

Ho passato mesi senza altro pensiero in testa se non quello del lavoro. Mesi interi senza riuscire a pensare ad altro. Non riuscivo neanche a dare troppo peso alle persone che incontravo sulla mia strada. Non riuscivo a vedere niente se non il lavoro. Non esisteva niente se non il lavoro.

Incredibilmente, sono riuscito comunque a mantenere più o meno la stessa vita che avevo l’anno prima. Ma dentro la mia testa, in sottofondo, anche nella migliore delle serate, sentivo sempre le urla di Briareo.

L’inverno è finito ed è iniziata la primavera. Poi è finita anche la primavera, ed è iniziata l’estate. Poi è finita anche l’estate ed è arrivato l’autunno. Io non mi sono accorto di niente. Io non mi sono goduto affatto l’estate e le belle giornate. Tornavo a casa sfinito tutti i giorni. Qualche volte sfinito ma felice, qualche volta sfinito e sconfitto, qualche volta sfinito e apatico, ma sempre sfinito. Consumato dall’ansia di questo progetto smisurato, vedevo la linea del traguardo allontanarsi di un metro ad ogni metro percorso.

Nonostante tutto, un pezzo alla volta, il piano improbabile per correggere quei numeri procedeva. A volte con ritardi, a volte costringendomi ad un cambio di strategia, a volte con degli imprevisti devastanti che causavano una ripianificazione di un mese o due di lavoro, ma procedeva.

Lasciando sorpreso persino me, che di quel piano ero l’ideatore e del quale sarei dovuto essere il più grande sponsor e con una fatica inumana, Briareo avanzava. I pezzi andavano al posto giusto. Iniziavano ad esserci dei risultati. Quei numeri iniziavano ad essere giusti sempre più spesso.

Ora che la storia sembra conclusa, immagino che vi chiederete come si abbatte un gigante come Briareo, dopo che è riuscito ad affrontare e sopraffare tutte le difficoltà di un percorso così lungo.

Dopo un’acquisizione che ci ha colto di sorpresa, come immagino un po’ tutte le acquisizioni, la nuova azienda che possiede quella per cui lavoravo io ha prevedibilmente deciso che non le conviene investire sul prodotto che sviluppiamo. Conseguentemente, non c’è più interesse nello sviluppo del progetto Briareo. Così come non le conviene investire neanche sull’altro, quello al quale lavoravano tutti i miei colleghi, quello che avrebbe dovuto rappresentare il nostro futuro.

La risposta è che non si sconfigge un gigante come Briareo. Lo si porta su un’isola deserta, e ci si dimentica di lui, mentre le sue cento braccia restano ciondolanti lungo il suo corpo e mentre le sue cinquanta teste si interrogano su quale sia il senso della sua esistenza.