Aspettavo questo momento da così tanto tempo, che non riuscivo neanche a credere che stesse succedendo veramente. Non mi sembrava davvero possibile, un tale colpo di fortuna come non ne capitano molti nella vita. A me poi, che avevo già avuto l’incredibile fortuna di averne uno, una volta. Inaspettato, non richiesto, infinitamente molto più desiderato del primo, sognato, per notti e notti di seguito. La cosa che ho più desiderato nell’ultimo anno e mezzo, quella per cui credevo avrei dovuto lottare, invece mi si è presentata così, spontaneamente.

È stato tutto così bello, così terribile, così simile a come l’avevo immaginato, così lontano dalle mie aspettative, così potente, così difficile da sopportare. Una disfatta senza uguali, una vittoria trionfante, una sconfitta debilitante. Senza dubbio una delle emozioni più forti che abbia mai provato, una che mi ha tolto il sonno per giorni e che mi continua a turbare da settimane.

E pensare che erano solo dieci miserabili inutili minuti.

Tremavo. Non era così freddo. Non era ancora dicembre. Aveva appena smesso di piovere. Mi ero raccomandato così tante volte a Dio che persino lui quella sera ha deciso di concedermi il supporto degli elementi, diradando brevemente le nuvole di quella giornata uggiosa, quel poco che bastava per concedermi un tetto per il mio piccolo palcoscenico.

In macchina, frettolosamente, mi sono dato agli ultimi preparativi, pochissimi istanti prima che arrivassi tu. Ed ecco già la tua grande nuova auto bianca, parcheggiare vicino la mia vecchia e sporca utilitaria ammaccata. Ero pulito, come dicono i prestigiatori. Sono sceso dall’auto con le mani vuote, ma le tasche del mio vecchio cappotto verde erano piene di prodigi. Ti ho salutato con un “ciao” senza molte pretese e ti ho guidata attraverso il silenzio sospeso della notte, nei giardini pubblici del paese che di sicuro conosci meglio di me. Ma quella sera, quei giardini dove tu hai passato la tua infanzia erano il mio palco, quella sera ero io al centro dell’occhio di bue, quella sera dettavo io i tempi scenici.

Più ci penso più il solo fatto che quella sera io e te fossimo lì è unico e straordinario. L’infamia del rullino nella Canon di tuo padre, che io gli avevo suggerito di riprendere ad usare, ti aveva messo nelle mani delle foto di noi perse nel passato. E tu, la vista di noi due felici insieme, da sola non l’hai retta. Me le hai inviate. Era una domenica sera, e sono state un pugno nello stomaco per te quanto lo sono state poi per me. Ma io non lo meritavo. Freddo come lo spazio profondo, ho puntualizzato i tuoi tempi verbali: non siamo belli, lo eravamo. Eravamo proprio belli insieme. E felici, soprattutto.
Guardaci.

Eravamo vestiti uguali: camicia celeste su maglione blu. La mia testa appoggiata appena sulla tua, come in tutte le foto. Che sorrisi spensierati. I tuoi vecchi occhiali: quelli con la montatura spessa con cui ti ho conosciuta. Quel tuo sguardo furbo… Quanto mi piaceva.

Fortunatamente non potevi saperlo, perché io ero a casa da solo, come sempre più spesso tendo a stare, in piedi col telefono in mano. Ma mentre guardavo quella foto, piangevo, dopo mesi, di nuovo come un anno e mezzo prima. Quel tempo verbale che ho corretto come il più stronzo dei professori di Italiano, non credevo avrebbe fatto così male anche a me.

Hai detto di volermi parlare, che avevi delle cose da dirmi. Io ho sentito l’adrenalina entrare in circolo. Dovevo fare qualcosa. Non potevo lasciarti di nuovo dire delle cose importanti per messaggio. Avevo già fatto lo sbaglio una volta, e guarda come mi hai ridotto. No, questa volta no. Avrei ascoltato le tue parole, ma solo dopo aver avuto finalmente i miei dieci minuti, quelli che mi hai promesso e poi negato un anno fa, quelli che ho sempre avuto la ferma intenzione di ottenere, prima o poi, da te. Non pensavo che fosse così semplice. Non credevo che per avere i miei dieci minuti mi sarebbe bastato chiederli. Non era così, un anno fa.

E ora eravamo lì, nei nostri soliti vecchi cappotti, al centro della pista di pattinaggio dei giardini comunali. Soli nel silenzio di quella notte di fine Novembre, io e te, dopo un anno e mezzo in cui non ci siamo più visti e quasi più sentiti. L’atmosfera era tesa e carica di aspettativa. La quiete prima della tempesta. E io avevo la bacchetta dei venti.

Ti ho ricordato come sono andati i fatti di un oltre un anno prima. Ti ho ricordato che mi avevi già promesso quei dieci minuti, e che quando sono venuto da te non me li hai voluti più concedere. Ti ho ricordato di aver aspettato un’ora sotto casa tua, senza ottenere niente. Ti ho detto che un anno fa sarebbe stato diverso, che sarei stato vestito meglio, che sarebbe stato più caldo. Ti ho detto anche che quella sera ero lì per mostrarti la luna, perché non ho dimenticato quella volta in cui mi hai detto di avermi visto portare la luna da ᴬ e come questo ti ha fatta sentire. Lo so che è stato quello, a farti innamorare di me. Ebbene io avevo conservato la luna per te, per tutto questo tempo. Non te la meritavi, ormai, come in realtà non te la saresti meritata un anno prima, ma allora la pensavo diversamente. Avevo fatto una fatica disumana per andare a prendere la luna, quando non avevo le forze per reggermi in piedi, quando non riuscivo a mangiare né a dormire né a fare qualunque altra cosa. Avevo realizzato l’opera più grande che potessi pensare, avevo superato tutti i miei limiti e le mie paure. Avevo compiuto un vero e proprio miracolo, per te, e tu non l’hai neanche voluto vedere. E ora volevo che tu lo vedessi, per dare finalmente pace alla mia anima dannata.

Ti ho chiesto di assecondarmi, se possibile. Era un modo carino per dirti di non rovinare tutto, perché ovviamente esisteva anche questa possibilità. Ti ho chiesto di chiudere gli occhi. Avresti potuto riaprirli poi, quando avresti voluto, ma iniziare sotto il tuo sguardo sarebbe stato molto più difficile. Ti ho detto che avresti sentito le mie mani toccarti, ma non in modo invadente o inopportuno, quanto piuttosto nello stesso modo in cui ti avrebbe potuto toccare uno sconosciuto, ed in modo in cui ero sicuro degli sconosciuti ti avessero già toccata. Eri in imbarazzo. Incuriosita, confusa. Io ero una corda di violino. Questo era il mio momento, dopo oltre un anno di attesa. Lo avevo sognato così tante volte, lo avevo immaginato così tante notti. Adesso era la mia occasione. L’agitazione era palpabile. Era il momento di dare tutto. Sarebbe stato il mio trionfo, o la mia fine.

Grazie alla tua completa e inattesa collaborazione, mentre non guardavi, ho tirato fuori dalle tasche quello di cui avevo bisogno e nei pochi interminabili istanti successivi, ho portato a termine gli ultimi preparativi. Come se avessi già provato quella sequenza di mosse infinite volte, cosa che in realtà non era mai avvenuta, un ultimo tocco sul display del telefono, una leggera pressione sul pulsante di blocco, e con un rapido movimento l’ho rimesso in tasca.

Ecco, questa era la luna che avevo preso per te.