E:
Immagino che tu ce l’abbia con me, non ti biasimo

E:
Però, sappi che mi dispiace

E:
Tanto

Non è vero.
Non è vero niente.
Non è vero che ce l’ho con te. Ok, forse in parte sì, ma non è quello il problema principale. Il problema principale è che ancora non ti rendi conto, o fingi di non renderti conto, di quanto tu abbia fatto tutto quello che fosse in tuo potere per farmi stare male. Hai fatto cose che non era necessario fare, hai fatto cose che ti saresti potuta risparmiare e che soprattutto avresti potuto risparmiare a me. Hai fatto cose che forse era necessario fare, ma le hai fatte in alcuni dei modi peggiori in cui avresti potuto farle. Il problema principale è che tu abbia fatto tutto questo sapendo chi avevi di fronte, sapendo chi sono, sapendo come sarei stato, sapendo che non era necessario e sapendo che avresti potuto fare le cose diversamente, in modo migliore, più umano, ottenendo esattamente gli stessi risultati. E invece le hai fatte come le hai fatte, sapendo che mi avresti fatto soffrire come non avevo ancora sofferto mai. Il problema è anche che non ti rendi conto di pretendere troppo da me se pensi che io possa passarci sopra e avere di nuovo un dialogo con te. Come se non lo sapessi, come se non te l’avessi detto mai che io non so come si fa a perdonare.
Effettivamente forse non lo sai, perché te ne sarai già dimenticata, come sono sicuro tu abbia dimenticato tutto quello che è successo in quei giorni, e (se non l’hai già fatto) a breve dimenticherai anche tutto quello che è stato tra di noi. Forse davvero non lo sai, ma neanche questa è una buona scusa, perché io te l’ho detto, e tu dovresti ricordarlo.
Lo scorso anno te l’ho detto, per ben due volte, entrambe in situazioni molto difficili, e non è stato assolutamente semplice trovare le parole per spiegarti come la vivo. Il Cristianesimo lo fa apparire così semplice, ne parla come se fosse una cosa normale, mentre secondo me è una violenza così grande verso sé stessi che mi domando come possa essere legale. Perdonare non è per niente facile, perdonare è estrarre il coltello che ti hanno piantato nella schiena, senza riuscire ad afferrare il manico, ma muovendolo facendo leva su quel centimetro scarso di lama che ancora fuoriesce dalla carne, col risultato di ferirsi anche i polpastrelli. È un dolore aggiuntivo sopra al dolore inevitabile, una fatica non richiesta sopra alla difficoltà che già comporta il solo respirare. Come puoi pretendere che io decida spontaneamente di attraversare questo inferno per te? Come puoi anche solo pensare di meritarlo? Di meritare ancora i miei sforzi, di meritare ancora il mio dolore? Non ne hai già visto abbastanza, di sangue? Non ti è bastato tutto quello che mi hai tirato fuori quei giorni, quando oltre a tutto quello che stavo già soffrendo, sopportavo in silenzio tutti gli insulti e gli agghiaccianti auguri di solitudine e di infelicità che mi facevi per il resto della mia vita? Non ti sei accorta che sono restato inerme, con le braccia lungo i fianchi e le mani vuote, mentre tu continuavi senza sosta a scaricarmi addosso tutte le peggiori cattiverie che potessi dirmi? E non le sceglievi a caso, per niente, sapevi esattamente quello che avresti dovuto dire per infliggermi più dolore e non ti sei trattenuta. Invece io, che penso proprio avrei avuto più diritto di te di essere alterato, mi limitavo a soffrire senza cercarti, senza darti disturbo, in silenzio, lasciandoti libera di vivere la tua vita felice, quella in cui fino a una settimana prima vivevo anche io, mentre ora mi trovavo ad essere un estraneo, lontano. Tu non lo sai, ma anche se a decine di chilometri di distanza, io potevo sentire sulla mia pelle ogni tuo passo sul pavimento che abbiamo montato insieme. Sentivo il soffice tessuto delle tue calze scivolare tra gli incastri dei listoni che ho poggiato io. Sentivo il tuo peso flettere quel punto che non era proprio venuto a regola d’arte nel corridoio davanti il bagno. Sentivo i tuoi passi veloci, purtroppo tutto tranne che dispiaciuti. E la parte peggiore è che non sentivo solo i tuoi, ma sentivo anche quelli di chi avevi portato in quella casa al posto mio. Li sentivo e così come era facile sentire i tuoi, così non era difficile distinguerli dagli altri. Non era difficile distinguere il suo tocco dal tuo, quando delle mani si appoggiavano sulle finestre che abbiamo rimesso a nuovo, sull’armadio della camera o sui rubinetti del bagno che abbiamo scelto insieme. Sentivo tutto questo, e lo sento ancora, nelle tristi notti in cui il sonno non mi raggiunge. Anzi, peggio ancora, adesso sento ancora più cose. Cerco di non far soffermare la mia mente su questi pensieri, ma è difficile soprassedere quando sento il peso di quattro piedi entrare nella doccia. È difficile pensare ad altro quando sento le mie chiavi girare nella serratura, ma non è la mia mano a stringerle. È difficile dormire, sapendo che il mio nome campeggia ancora vicino al tuo, in quella che impunemente ti ostini a chiamare la nostra targhetta della cassetta delle lettere. E visto che ci siamo, per favore, non farlo mai più. Non pensi che abbia già sofferto abbastanza, mentre sentivo tutte queste cose e nonostante tutto lasciavo che tu mi trattassi ancora come l’ultimo viscido criminale di questa terra, quando il mio unico vero crimine è stato quello di fidarmi di te? Cos’altro pensi di poter spremere via da me? Non c’è più niente qua, niente.

Non è vero che ti dispiace, è una cosa che dici per sentirti meno in colpa, perché forse dopo sei mesi, in minima parte ti sei anche resa conto di come tu ti sia comportata in modo disumano senza averne nessuna ragione, ma fidati, non hai ancora il quadro completo della situazione.

E se anche fosse vero, cosa che non è, non è questo il momento di parlarne.
Il momento di parlarne è stato quella sera in cui mi hai detto che avremmo potuto parlare, quella sera in cui mi avevi detto che mi avresti concesso i dieci minuti che ti avevo implorato di concedermi. Gli ultimi, quelli che mi sarebbero serviti per cercare un’ultima disperata volta, di rimettere insieme i pezzi. Quella sera in cui ancora pensavo di poter salvare le cose, quella sera in cui mi sono fatto 40km per venire sotto casa tua, accompagnato da due colleghi d’ufficio troppo caritatevoli per lasciarmi fare la strada da solo, preoccupati che sarei potuto volare giù da un cavalcavia. Quella sera in cui con una lucidità spaventosa, ho veramente pensato che volare giù da un cavalcavia sarebbe stato meno doloroso. Quella sera in cui dopo mezz’ora di macchina, ho aspettato un’ora sotto casa tua, solo per sentirmi dire che ormai era troppo tardi, che eri stanca, che ti saresti dovuta alzare presto, che i tuoi genitori si sarebbero preoccupati se fossi uscita a quell’ora. Come se una sola di queste cose ti avesse mai veramente distolta dal fare qualcosa che volessi fare davvero, testarda come sei. Non stavi facendo altro che propinarmi un cumulo di stronzate una sopra l’altra, tutte accatastate in fretta per nascondere un’altra verità. Perché mi hai voluto dare anche questa illusione? Perché mi hai voluto negare i dieci minuti che ti avevo chiesto, perché mi hai negato la possibilità di avere il mio ultimo dialogo con te, di tentare ancora e di fallire, potendo finalmente mettere l’anima in pace sapendo di aver dato tutto me stesso? Quel fine settimana, ridotto già al fantasma di me stesso, ho dato fondo a tutte le energie residue che avessi, per tentare di fare la stessa cosa che per prima ti aveva fatto interessare a me, quando qualche anno indietro ero stato in grado, e perdonami se userò le tue parole, di prendere la Luna e di portarla da ᴬ. Me lo avevi detto proprio tu, al telefono, qualche sera dopo. Io quel fine settimana, nonostante mi reggessi a malapena in piedi grazie alla sola forza della disperazione, perché non riuscivo a mangiare da giorni, mi ero deciso a tentare di nuovo quel sensazionale numero di magia, ed ero partito per andare a prendere la Luna e portarla da te. Non sapevo se mi sarebbe riuscito di nuovo, ma sapevo che per te valeva la pena tentare, perché ti amavo ancora e perché ancora si poteva aggiustare ogni cosa. Perché è vero che ci ero già riuscito a prendere la luna, ma non era la stessa. Questa era più grande, importante, lontana e infinitamente più difficile da imbrigliare. Mi è costata una grande fatica, una che veramente nemmeno immagini, ed energie che in quel momento non possedevo, ma io quella maledetta sera, nel parcheggio sotto casa tua, lì, in mano, la Luna ce l’avevo. E non ce l’avevo per me, ma ce l’avevo per te. Avevo attraversato il vuoto cosmico delle mie paure, avevo fatto un lungo viaggio che questa volta mi aveva addirittura portato oltre ai miei limiti umani, ero diventato qualcosa di più, e l’avevo fatto solo per te, per dimostrarti che avrei potuto fare veramente qualunque cosa per non perderti. Era quello il momento di parlare di dispiacere, era quello il momento di chiedere scusa, era quello il momento di affrontare questi argomenti. Non solo, quello era proprio l’ultimo momento per affrontare questi argomenti. Dal giorno dopo avremmo potuto parlare di tutte le altre cose che non contavano niente. Ma lì, quella sera, era l’ultimo momento buono per parlare di noi, era l’ultimo momento in cui avremmo potuto ancora usare questo pronome. E lo sapevi, perché di nuovo te l’ho detto io… Chissà se di questo almeno ti ricordi? Sapevi tutto e nonostante questo, non ti sei neanche degnata di affacciarti dalla finestra. Tutto il mio sforzo, tutto il mio dolore, tutto me stesso, e anche qualcosa più di me stesso, completamente ignorato, senza il minimo valore. Persino io in quel momento mi sono dovuto arrendere al fatto che di me non ti importasse più niente. E dire che fino ad allora, questa ipotesi non mi aveva affatto sfiorato la mente. Il motivo è che da ormai lungo tempo non mi trovavo dall’altra parte di quella gigantesca fortezza di parole dure, di certezze autoimposte e di spietato egocentrismo con la quale ti fai conoscere e detestare a prima vista quando ti presenti al mondo esterno. Non credevo, davvero, che mi sarei trovato a doverla cercare di penetrare di nuovo. Ma questa volta la fortezza non era composta solo da mura. C’erano cascate di olio bollente su tutte le pareti, punte di frecce avvelenate e dardi di balestre da ogni feritoia e lame ad ogni spiraglio ad attendermi. E io ho lasciato che tu mi bruciassi, tagliassi, e perforassi mentre cercavo di forzare la tua difesa con la mia calma inesauribile, come ho sempre affrontato ogni discussione con te. Non hai sfinito la mia pazienza, ma hai consumato la mia carne e sgretolato le mie ossa. Non avrei più potuto spingere contro il portone di ingresso senza le spalle. Non avrei più potuto cercare di scalare le mura senza le mani. Non avrei più nemmeno potuto aspettare in piedi dall’altro lato del fossato, senza più le gambe. Nessuno riuscirà a penetrare la tua fortezza, mai, non senza prima aspettare che l’olio si raffreddi, che le spade si spuntino e che gli archi si sfibrino. Ma in ogni caso, poco importa, perché ormai quella sera è passata e io me ne sono tornato a casa con nient’altro che un credito di dieci miserabili inutili minuti.

Questo, avrei voluto dirti. Ma erano troppe cose, tutte insieme, e come invece ti ho detto, non avrebbero aiutato né me né te. Alla fine, è stato meglio per entrambi che io non ti abbia detto niente.