Ho paura.

È un sacco di tempo che non torno qua. Sono diversi giorni che vorrei tornarci, ma ho paura. Ho paura di quello che troverò. Ho paura di come reagirò.

Ho paura.

Non sono mai stato una persona coraggiosa, al contrario. Credo che la paura abbia una grande importanza nel tenerci lontani dai guai.

Ho rispetto della paura, ma sono settimane che sento di aver bisogno di tornare in questo luogo di riflessioni. Ho paura di ciò che succederà, come l’ho avuta negli ultimi giorni, ma questa sera non ho nessuna scusa davvero buona per stare alla larga da qui.

Questo posto è terribilmente diverso dall’ultima volta che ci sono venuto.

Sono qui, al mio computer. È passato veramente tanto tempo. Sono qui al mio computer, alla mia scrivania. Oltre la scrivania però, intorno a me, niente.

Non sono veramente alla mia scrivania, sono nella mia mente, ma intorno a me non c’è niente.

No, non è esatto, non c’è niente di riconoscibile. Intorno a me ci sono un sacco di cose, ma sono tutte cose estremamente scomode e tristemente senza importanza.

Pezzi.

Macerie, a perdita d’occhio, in ogni direzione.

Come è potuto succedere che dentro di me rimanessero solo ruderi? Fino a qualche mese fa qui era tutto pieno di strutture, palazzi, grattacieli, strade, ponti. Un sacco di gente al lavoro, traffico ordinato, persino dei parchi. Era tutto ben congegnato, erano in corso dei lavori per dei piani di ampliamento, un sacco di movimento, un viavai ben orchestrato.

C’era un sacco di lavoro da sbrigare e poco tempo libero, molte preoccupazioni per il futuro, ma si stava bene qui.

Non c’è più nessuno qua intorno, e non è difficile immaginare il motivo. Non c’è più motivo di stare qui. Non c’è più niente per cui valga la pena restare, perchè non c’è letteralmente più niente qui.

Di quei grattacieli restano solo gli scheletri, vuoti, spezzati a meno di metà altezza. Il resto è venuto giù in terra, rovinosamente, nel giro di qualche istante. Ha sfondato le strade, con piani interi dei palazzi che le attraversano come coltelli. Le vetrate degli edifici, esplose in milioni di pezzi, ricoprono quello che resta dei marciapiedi, o almeno le parti di loro che non sono già state sfondate dai palazzi venuti giù, che ne hanno distrutto il manto.

Ci sono ancora automobili, moto, camion e pullman, ma sono tutti vuoti, fermi su strade che a malapena si riconoscono come tali. Alcuni di essi sono in tutto o in parte intrappolati, rimasti schiacciati sotto i blocchi di cemento, venuti giù da chissà dove.

Non c’è più nessuno qui, a parte me. Neanche l’ombra sfuggente di una lucertola sorpresa a raccogliere qualche raggio di sole in questa giornata grigia. Neanche una maledettissima fastidiosa mosca, non un cane randagio, non un gatto in cerca di topi. Probabilmente sono l’unico essere vivente che ci sia qua, per chilometri e chilometri.

Indubbiamente me ne sarei andato anche io se avessi potuto, ma io non posso uscire dalla mia testa, non posso andarmene da qui. Non senza impazzire. Sono intrappolato nella mia sanità mentale, in un posto dove non ha più senso essere, ma in cui purtroppo sono irresistibilmente chiamato a tornare.

Lo sguardo torna alla scrivania su cui poggiano le mie mani, mentre faccio forza per cercare di rialzarmi anche se le gambe non mi assistono, neanche un po’.

Riesco a rimettermi in piedi finalmente, e sono già spossato solo per aver abbandonato la sedia. Mi appoggio a quello che trovo e muovo qualche passo, senza destinazione e senza scopo, avvolto dall’atroce silenzio di questo sterminato spazio colmo di ruderi.

Mi trascino in queste vie che conosco a memoria, riconosco le strade che attraverso, so che qui un tempo c’era un centro commerciale, qui vicino c’era un’università, e subito dietro un quartiere residenziale. Riconosco tutti questi palazzi, queste strade, questi ponti, mirabili opere di ingegneria e di architettura: sono tutte le mie certezze, tutti i miei piani per il futuro.

Sono tutto.

Non sono più niente.

Ormai non sono altro che immensi e spettrali monumenti ai caduti. Un gigantesco tributo al fallimento che riempie di tristezza il mio presente.

Continuo a camminare a fatica, più per fare l’inventario di tutto quello che non c’è più che per vedere se c’è qualcosa che ancora si può salvare, perchè lo so benissimo che non c’è, anche senza guardare.

Qui è passato un cataclisma di proporzioni mai viste: è un vero e proprio miracolo che ci sia ancora io, invecchiato come di mille anni, zoppicante, ma ancora vivo.

Raggiungo un cantiere sterminato, un largo spiazzo di terra. Qui è dove avrei eretto tutti i ricordi che avremmo costruito una volta iniziata la nostra convivenza, proprio in questi giorni. Lo spazio è stato riservato per questo, da quasi un anno. Non è stato facile all’inizio, ci sono volute diverse feroci battaglie per cambiare il piano regolatore, ma con il tempo si sono convinti tutti che quello fosse il posto migliore da dedicare a questa costruzione, e il progetto era piaciuto a tutti quanti. Purtroppo è evidente che non si possa più fare niente di tutto ciò: il terremoto ha aperto una voragine che squarcia la terra da parte a parte e non si può più costruire niente qui. Probabilmente quest’area dovrà rimanere transennata per sempre, nessuno potrà metterci piede, senza rischiare la vita.

A fatica mi dirigo verso il museo. So già che la sua vista mi farà male, perchè a giudicare da com’è messo il resto di questo posto, il museo non può essere finito bene. E nel museo c’erano un sacco di cose a cui tenevo moltissimo. Giro l’angolo e come previsto mi trovo davanti il museo. A prima vista non sembra messo male, la facciata è quasi completamente intatta, escludendo qualche pezzo di intonaco che si è staccato. Il problema è che già da qui si vede che l’ultimo piano non c’è più e lassù c’erano ricordi bellissimi degli ultimi anni. E chissà cos’altro si è portato via l’ultimo piano, cadendo sopra gli altri, giù fino al piano terra.

Dietro al museo, uno spazio vuoto nel profilo degli edifici mi colpisce in modo particolare: manca completamente la cupola dell’osservatorio astronomico. Da lì avevo guardato entusiasta l’avvicinarsi di tante speranze per il futuro e prospettive di vita invidiabili, avevo accarezzato una vita felice, mi ero sentito veramente il padrone del mondo. Non c’era più niente di tutto ciò.

Proseguendo, purtroppo, le notizie non migliorano: della biblioteca non rimane che un cumulo di cenere, perchè anche la mia voglia di leggere si è estinta. E il cumulo di cenere è alto, perchè non tira un filo di vento da quando c’è stata la calamità, e tutto quello che è rimasto dopo l’incendio, è ancora lì. Non un granello è stato mosso, così da consentirmi di vedere nella sua interezza la quantità di carta che è stata bruciata.

Della sala giochi non rimane che l’insegna al neon, ovviamente spenta, così come il mio interesse per i videogiochi, i giochi da tavolo.
Non mi riconosco più: non riesco a stare dentro casa, non riesco a stare al computer, non riesco a giocare ai videogiochi, non riesco a leggere, non riesco a scrivere, non riesco a stare con gli amici, non riesco a stare da solo, non riesco a stare, non riesco, non.

Insieme alla terra sotto ai miei piedi, ai miei ricordi del passato, anche i miei programmi per il futuro e le mie prospettive felici sono venute giù insieme a tutto il resto, nell’arco di quei pochi minuti in cui tutto è successo.

Non reggo la vista di tutta questa devastazione, mi sento svenire. Barcollo a ritroso, ho bisogno di sedermi, non ce la faccio a continuare questo giro nella casa degli spettri. Ho paura.

Raggiungo di nuovo la mia scrivania. C’è ancora il portafoto dal quale da due anni mi sorridevi, ma anche lui è a faccia in giù, alla mia sinistra, come crollato.

Ma non è crollato da solo.

Sono stato io a metterlo così, in modo che il mio sguardo non potesse più incontrare il tuo.

Ho paura. Paura perchè so che quando ne avrò la forza, chissà tra quanto tempo, dovrò farmi coraggio e iniziare a ripulire questa smisurata distesa di macerie. Forse riuscirò anche a rimuoverne abbastanza da liberare le strade; probabilmente potrà di nuovo passare un camion di materiale edile, o uno che trasporta dei mezzi per iniziare a smaltire i detriti. Sicuramente una volta dato il via alle operazioni di messa in sicurezza, non sarò solo a compiere questo lavoro titanico. Ma ho paura perchè, quando le strade saranno di nuovo percorribili, e le macerie rimosse, e qua sarà di nuovo tutta una grande pianura pronta per essere edificata, quando gli altri se ne saranno andati contenti di avermi aiutato a sgomberare tutto, resterò solo io, il grande vuoto davanti a me, e la polvere.

E ho paura perchè i mattoni, le tegole, le travi, i vetri, e le colonne si vedono: sono tantissimi ma si possono contare, è possibile sapere quanti ne restano da togliere, si può dire quando si ha finito.

La polvere continuerà ad uscire da ogni tasca, dai vestiti, dalle pagine dei libri e quando sembrerà finalmente finita la troverò in un cassetto, sotto un tappeto, o me ne porterà ancora un altro po’ un soffio di vento.

La polvere mi tormenterà per anni. E forse non me ne libererò mai.