Dirigersi, soli, in silenzio, lontano. Dove, non fa differenza, l’importante è che sia veramente lontano. Lontano da tutti, lontano da ogni forma di vita, lontano dagli amici, dai parenti, dai rompicoglioni, dai passanti. Lontano.
In mezzo ad un campo, o tra i sentieri tutti uguali di un bosco sconosciuto, dentro gli scavi di un cantiere deserto, o sulla cima di un monte, da cui poter guardare con distacco il resto del mondo, perché in quel momento il resto del mondo non conta niente.
Immergersi nei pensieri, soli, seguire il filo di ogni ragionamento, raggiungere il nodo in cui si intreccia col prossimo e ripartire da capo. E così, ancora e ancora, sapendo che non c’è via di fuga da quel labirinto di pensieri, consapevoli che la soluzione non può trovarsi in nessuno di quegli intrecci, su nessuno di quei fili, e quasi certamente neanche nell’insieme di quella confusione di nodi. Ricominciare da capo, raggiungere la stessa conclusione, e provarci lo stesso ancora, fino allo sfinimento.

Raggiungere lo sfinimento.

Fermarsi, guardarsi intorno, scrutare le ombre della sera. Provarci ancora una volta, legarsi le dita di nuovo, da soli, nel tentativo vano di trovare una via d’uscita da quella matassa inestricabile di problemi.
Guardare al cielo, in silenzio, per un momento interminabile. Ascoltare i suoni che vengono dal mondo, che nonostante tutto c’è, anche lì, in quel luogo nascosto ed isolato. Sentire il vento muovere le foglie, il suono lontano di qualche auto che viaggia verso la sua destinazione, il verso sconosciuto di qualche volatile notturno.
Aspettare, finché il cervello non è in grado di riassorbire tutti quei rumori e di filtrarli, sentire di nuovo il silenzio, falso, della solitudine.
Inspirare, lentamente e in profondità, riempire i polmoni fino ad averli colmati, gonfiare il petto non per orgoglio, ma per disperazione.
Urlare.
Nessuna parola, niente di sensato, solo un urlo, primitivo, animalesco, rabbioso, disperato. Urlare fino ad aver svuotato completamente l’aria dal petto.
Ascoltare, un istante, il silenzio irreale intorno, inspirare di nuovo.
Urlare.
Sentire le corde vocali vibrare così forte da credere che possano scardinarsi e saltare via.
Riprendere fiato.

Urlare, ancora, fino a sentire la gola scorticarsi, un po’ alla volta.
Prepararsi per il round successivo.

Urlare.

Urlare tutta la disperazione di un leone in gabbia, urlare tutta la rassegnazione di braccia che non possono fare niente, perché non è loro permesso. Urlare tutta la solitudine di giorni di silenzio. Urlare tutta la mancanza. Urlare tutta la forza di un amore che si sta spezzando, o che forse è già in frantumi, ma che sicuramente sanguina e lo farà per i mesi a venire.

Non è ancora finita.

Urlare, un’ultima volta, sputando così, insieme ai polmoni, il nodo irrisolvibile dei pensieri.
Cadere in terra stremato e riprendere fiato, in silenzio, mentre il mondo assorbe e diluisce il dolore, restando esattamente inalterato, freddo, insensibile.
Raccogliersi, rimontarsi, ritornare in piedi. Trovare in silenzio la strada del ritorno, la stessa che si aveva cercato di smarrire qualche ora prima, quando questa ricerca di solitudine era iniziata.
Tornare ad immergersi nella società, società che osserva incredula un suo ingranaggio che salta dalle fila, senza però preoccuparsi troppo del perché o di come si possa rimettere al suo posto.