(Prosegue da “La Madonna di Colle“)

Mio nonno, dopo la settimana in cui tutto avvenne, non si riprese più.

Così come avvenne per sua sorella, e come non è difficile che accadrà per me, la sua testardaggine fu la sua rovina, e si ammalò di polmonite dopo ferragosto. Quando io, che avevo avuto il mio bel da fare, mi resi conto di quello che gli era successo, era già fuori pericolo.

Non so dire quanto tempo fosse passato, i ricordi di quel periodo sono eccezionalmente vaghi. Ricordo però di essere stato a trovarlo in ospedale. Era attaccato all’ossigeno, ma i suoi occhi azzurri erano illuminati come sempre, anche se forse un pelo più stanchi. Gli avevamo tenuto nascosto che mi ero lasciato, così ho fatto del mio meglio per mascherare il funerale che mi portavo dentro, ancora per qualche giorno.

Non tornò più a camminare, non era più autosufficiente e avrebbe avuto bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui e della casa dove viveva ormai solo. Questo fu l’ennesimo pugno in faccia che gli aveva assestato la vita: non sarebbe stato l’ultimo, ma di certo fu un colpo bello grosso. Forte, testardo, indipendente, nel giro di qualche settimana mio Nonno dovette rinunciare a guidare, a camminare, e a decidere della propria vita. Impiegammo un po’ per trovare un badante, ma grazie a qualche contatto, neanche poi così tanto.

Lo affidammo alle cure di A., che si trasferì a vivere da lui. Un uomo gentile, ottimista, sempre sorridente. Occhi neri, pochi capelli, ci fece una gran bella impressione: sembrava troppo bello per essere vero, dopo le innumerevoli storie dell’orrore con i badanti di cui avevo sentito parlare da amici e parenti. Una presenza discreta, silenziosa, con la quale la casa tornò ad essere sempre in ordine e splendente, esattamente come quando c’era mia Nonna a pulirla da cima a fondo giorno e sera, come fosse la sua vocazione.

Disse a mia madre “Ora lui è come se fosse anche mio papà” e così, iniziò a chiamarla sorella. Un gran lavoratore: aveva sempre bisogno di soldi da mandare alla sua famiglia lontana, di cui parlava spesso a mio Nonno e a me. Andavo quasi sempre io a sostituirlo nei suoi giorni liberi. Ne approfittavo per stare un po’ con mio Nonno, che era fiaccato nel fisico ma non nello spirito, e che aveva come obiettivo quello di riuscire a fare le quattro rampe di ripide scale che lo separavano dal mondo esterno e per il quale si impegnava con la riabilitazione.

Quando non dormiva, stavamo lunghe ore insieme, a fare belle chiacchierate. A sentirci, non era facile capire chi tra i due fosse il vecchio stanco e scontento del mondo e chi no. Per certi versi, entrambi lo eravamo.

Quando finivo di parlargli del lavoro, finiva sempre per chiedermi di E. Si sarebbe interrogato fino all’ultimo, chiedendosi come fosse possibile che fosse andato tutto così a capofitto così in fretta. Non se lo poteva spiegare e non se ne dava pace. Non avevo spiegazioni da offrire: potevo tirar fuori solo un po’ di falso ottimismo, nella speranza che il futuro ci riservasse qualcosa di meglio.

Dopo qualche minuto in silenzio, mi ripeteva sempre che avrei dovuto divertirmi, perché erano quelli i momenti migliori della mia vita, e che andando avanti sarebbe solo peggiorato. La cosa peggiore è che gli credevo, e visto come stavo vivendo i miei anni migliori, in realtà il futuro mi metteva più angoscia che speranza.

Al mio arrivo a casa di Nonno, uno di quei giorni, mi accorsi che A. aveva un dente rotto. Era molto evidente, perché si trattava proprio di uno degli incisivi. Gli chiesi come fosse successo, e mi spiegò che quel dente era rovinato da tempo e che gli si ruppe mordendo una mela. Non mi ricordavo di aver visto il dente di A. rovinato in precedenza… Ma del resto non sono il tipo di persona che fa caso alle cose, quindi non badai più di tanto alla stranezza della spiegazione.

Mio nonno ebbe un po’ di alti e bassi portati dalla febbre che lo fiaccava subito e gli faceva perdere i progressi raggiunti nella riabilitazione, e ricominciare da capo.

Si avvicinava il Natale ed io ero già in ferie, non perché lo volessi, quanto piuttosto perché quell’anno avevo racimolato un sacco di ore, programmando un trasloco che non avvenne mai, e che ora mi lasciava con un bagaglio di ore da consumare.

La mia vita era stata rasa al suolo, non avevo speranze né hobby per riempire il mio tempo, per cui la maggior parte delle volte andavo a trovare il Nonno: per lui era come una boccata d’aria fresca.

Quando arrivavo a casa di Nonno, A. si congedava e si allontanava sempre dalla stanza dove stavamo noi. Faceva così per lasciarci liberi di parlare da soli: a volte usciva a fare quattro passi, oppure andava in tabaccheria. Non fumava, ma andava a spedire i soldi, di cui continuava a chiedere anticipi, ai suoi parenti.

Uno di quei giorni di Dicembre, mentre parlavo con Nonno del più e del meno, mi ricordo bene di come cambiò espressione per dirmi che non si sarebbe fatto portare in giro da “quello là”, accennando con un movimento del capo alla stanza dove si era ritirato A.

Far accettare la presenza di A. a mio Nonno non è stato facile, ed è servita tutta la mia diplomazia. Ogni tanto diceva qualcosa che non avrebbe dovuto dire, e avevo la sensazione che fosse questo il caso, quindi gli ho chiesto di spiegarsi meglio.

Ha infilato la mano nella vestaglia, attraverso il collo della maglia, e ha afferrato la catenina d’oro che porta al collo da quando ho un ricordo di lui.

Forse il primo ricordo che ho di lui è proprio della sua catenina d’oro, con quel crocifisso che mi sembrava così grande, e che lui chiamava, come se fossero amici di lunga data, Nazzareno. Nel corso degli anni, Nazzareno era stato raggiunto, sulla sua catenina, dalla fede nuziale di mia Nonna, dopo la morte di lei, e da una miniatura della Madonna di Colle, che aveva commissionato ad un orafo, dopo un sogno che aveva fatto.

Ha percorso con le mani tutto il perimetro della catenina, rivelando fuori dalla vestaglia solo la fede di Nonna: il crocifisso e la Madonna di Colle erano spariti.

Chiesi una spiegazione ad A., che ovviamente ne aveva una. Non particolarmente solida, ma neanche completamente campata in aria: un incidente, capitato mentre si sbrigava a buttare in lavatrice le lenzuola ed i vestiti di Nonno, dopo un incidente a letto causato da una delle sue recenti febbri.

Il mio professore di storia dell’arte delle superiori aveva un modo tutto suo di approcciarsi ai rapporti umani, e per quanto non penso di essere bravo la metà di lui, la sua filosofia mi è sempre piaciuta: io mi fido del prossimo, finché non mi da un motivo solido per non farlo più.

Mi fidavo di A., è una persona buona e gentile, non avevamo mai avuto motivo di dubitare o anche solo di lamentarci di lui. Un incidente può capitare, ma mio Nonno non la vedeva così. Decise semplicemente di non tirare più fuori l’argomento, perché gli faceva male aver perso quei ricordi così cari, ma anche perché tanto non c’era niente da fare.

Anche il compagno di mia madre non aveva creduto alla storia di A. e, purtroppo per lui, il suo passato da investigatore privato l’ha convinto a rimanere alcune sere in appostamento in prossimità di casa di Nonno, per controllare gli spostamenti notturni di A.

Ero convinto che questi suoi agguati non l’avrebbero portato da nessuna parte, questo finché un sabato sera non mi chiamò e mi chiese di raggiungerlo subito a casa di Nonno. A. era uscito verso le 10 o le 11 di sera, con una busta, si era allontanato ed era ritornato senza, dopo diversi minuti. Non si trattava di spazzatura, visto che quella la raccolgono direttamente dal cortile, per cui di cosa si trattava?

Non credevo, che mi sarebbe mai capitato di impersonare il poliziotto buono, ma lo sceneggiatore della mia vita la pensava diversamente, e dunque eccomi qui, ad entrare di notte a casa di mio Nonno, mentre lui dorme, a chiedere conto ad A. delle sue uscite notturne, con il compagno di mamma a farmi da spalla, nelle vesti del poliziotto cattivo.

In lacrime, A. ci confessò di aver rubato il crocifisso e il ciondolo della Madonna di Colle, per pagare dei debiti di non meglio precisata natura, alla persona che gli aveva spaccato il dente, per convincerlo a farsi portare i soldi.

Decidemmo di non denunciare A. Sono stato promotore di questa decisione, perché nonostante tutto ho continuato a credere nella sua buona fede e nella sua bontà d’animo. Credo si sia trovato con le spalle al muro e che si sia anche sentito veramente terrorizzato per agire così. Avrei preferito non doverlo scoprire con le tecniche di spionaggio del compagno di mamma però… Forse se ci avesse spiegato il problema, lui avrebbe ancora tutti i denti, e io avrei al collo il crocifisso che ricordo spuntare dalla camicia sbottonata di mio Nonno, nelle serate d’estate della mia infanzia.